Diritto del Lavoro
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Offriamo sia consulenza stragiudiziale a privati che a società, sia assistenza legale di tipo giudiziario, in ogni grado di giudizio.
A titolo esemplificativo, ma non esaustivo,
ci occupiamo di:
licenziamenti individuali e collettivi
dimissioni
impugnazione sanzioni
Le “nuove” frontiere della flessibilità del lavoro: il contratto a termine rivisto e corretto.
Ormai da quasi due anni (ovvero dalla Legge n. 92/2012 “Legge Fornero”) e con ben tre interventi normativi (si ricorda anche la Legge n. 99/2013), il nostro legislatore si sta concentrando nello sforzo di favorire una riapertura del mercato del lavoro, sempre più convinto che tale risultato debba necessariamente passare da un profondo processo di liberalizzazione del contratto a termine.
In sostanza, anche secondo la nuova nomenclatura politica, più il lavoro a termine diventerà uno strumento user friendly per il datore di lavoro, più quest’ultimo si dovrebbe convincere dell’opportunità d’investire senza timore sull’assunzione di nuovi lavoratori.
Si tratta di un errore concettuale di fondo, perché il problema, in realtà, è un altro: fino a quando non vi sarà un incremento dei consumi – quindi maggior denaro da spendere – non vi sarà un aumento della produzione. Non serve a nulla rendere potenzialmente più flessibile e appetibile per l’imprenditore un contratto di lavoro, se prima non si fa in modo che il datore di lavoro abbia l’esigenza concreta di avere più lavoratori e quindi di stipulare più contratti, senza impegnarsi oltre un certo limite, senza “rischiare” più di tanto.
Ecco perché la nuova riforma lascerà scontenti tutti: imprenditori e lavoratori. I primi la snobberanno, i secondi la vivranno, a ragione, come l’ennesima condanna al precariato. La riforma Poletti, varata in data 20 marzo 2014, si propone di eliminare anche gli ultimi residui impedimenti che la Riforma Fornero aveva lasciato per limitare, almeno sulla carta il regime di precarietà che, ormai dal 2003 (anno della “Riforma Biagi”), domina incontrastato il Mercato del Lavoro italiano.
Tutto passa per l’ennesimo restyling della c.d. acausalità (ovvero la possibilità riconosciuta al datore di lavoro di non specificare le motivazioni che lo portano a fissare una scadenza al rapporto di lavoro), quest’ultima, prima, era concessa solo per i primi dodici mesi, ora, per l’imprenditore, il semaforo è verde per ben tre anni. Non solo: la durata massima del contratto a termine resta fissata in 36 mesi, ma fra un contratto e l’altro, oggi, non esiste neanche più quella “parvenza” rappresentata dall’obbligo di una pausa di dieci o venti giorni, prima del successivo contratto. Con il solo “limite” di otto proroghe consecutive (la Legge Fornero almeno ne consentiva una sola), i rinnovi possono ora susseguirsi senza soluzione alcuna di continuità.
Una discesa “senza freni”, quindi, verso gli inferi del precariato. L’unico limite è il seguente: se i contratti collettivi non hanno già previsto un tetto - i contratti a termine in azienda non potranno superare un massimo del 20 per cento dell’organico.
Non bisogna essere pessimisti e non bisogna avere pregiudizi: ogni Legge deve essere testata sul campo, quindi anche questa Riforma dovrà esserlo. Però una domanda nasce spontanea: se la Legge Fornero dopo quasi due anni, ha mostrato ampiamente i suoi limiti, le sue incertezze e la sua profonda inadeguatezza, perché continuare a muoversi sulla stessa strada? Ai posteri l’ardua sentenza.
Avv. Alessandro Andreucci
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